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Grespelle Calabresi

LA CRISPELLA O GRISPELLA

Alcuni storici della gastronomia napoletana ritengono che le prime tracce delle Crispelle si trovino nel Liber de coquina, del XIII secolo: “Per le crispe, prendi farina bianca stemperata con acqua calda e fai lievitare con lievito finché cresca. E cuoci in padella con olio bollente. E mangia, aggiunto del miele”. Anche Giovan Battista del Tufo, nel suo Ritratto della nobilissima città di Napoli (XVI secolo), parla delle crespelle che l’ambulante porgeva “co lo mele”. In seguito, sarebbe comparsa la versione salata, con baccalà e alici, nel trattato Cucina teorico-pratica (1837) del duca di Buonvicino, Ippolito Cavalcanti, che le descrive come palline di acqua, farina, lievito e sale. Dalle ciambelline al miele si sarebbe giunti, così, alle palline salate che i Napoletani chiamano anche pizzelle ‘e pasta crisciuti come street food nel tradizionale cuoppo.

Tutto questo excursus storico – gastronomico ha qualcosa a che vedere con la crispella calabrese? Essa, la grispella calabrese, come noi la conosciamo in vernacolo diamantese, (in altri luoghi, crustuli, zzippuli o cudduriaddhi), è sì talvolta anche rotonda o cosparsa di zucchero e miele, ma per lo più è pasta lievitata con filetti di acciughe o ricotta, fritta in olio bollente, sotto forma di sfilatini allungati. Tale forma, inoltre, non sarebbe casuale, in quanto una tradizione racconta che il capofamiglia debba riporre nell’olio il primo pezzo o almeno tenere il manico della frissura, nel momento in cui la moglie vi immerge la prima crispella sotto forma di bambinello, oltre che segnarla con una croce. In altri casi, una croce sul camino, per buon auspicio, viene realizzata con la pasta lievitata; in altri ancora, ad ogni frittella immersa nell’olio si pronunciano, sempre per buon augurio, i nomi dei componente della famiglia.

Pertanto, dal punto di vista antropologico, le nostre Grispelle, più che alla storia della gastronomia sono strettamente collegate alla religiosità popolare, in particolarità ai riti del Natale e di Santa Lucia, festa cristiana che Vincenzo Padula fa risalire alle Faunalie romane, poiché si celebravano alle none di dicembre, ovvero il 13 dicembre, per offrire al dio Fauno i prodotti dei campi in banchetti sacri. Come in altri rituali cristiani, anch’essi mutuati, nel Medioevo, da antichi riti pagani, (ad esempio quello della distribuzione della pasta e ceci ai poveri, nell’Invito di San Giuseppe), anche nel caso delle Grispelle, il cibo è condivisione, tra carità e superstizione. Esse si mandano ai vicini soprattutto se in lutto, e in numero dispari, giacché le famiglie in lutto non possono dedicarsi alla frittura, attività festosa che si fa in allegria. In alcuni centri calabresi, era diffusa l’usanza, come ex-voto, di friggere, all’aperto, davanti alla chiesa, per poi offrire le grispelle, gratuitamente, ai passanti.

Il loro consumo in Calabria riguarda tutto il periodo natalizio, a partire dall’8 Dicembre, ma a Diamante è strettamente legato alla festività di Santa Lucia e al 24 Dicembre, cioè le due date che circoscrivono il periodo in cui “il contadino calabrese. come scrive Vincenzo Padula – deduce i prognostici dell’andamento delle stagioni avvenire, osservando come il tempo si manifesta dal giorno i Santa Lucia a Natale. Sono dodici giorni ch’egli chiama calennule (calendae) o juorni cuntati, e ritiene che ciascuno di essi risponda in ordine progressivo a ciascuno dei mesi dell’anno che succede”.

Articolo di: Stella Fabiani

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